a
nobiltà proviene dall’animo: è ciò che uno
compie a renderlo nobile. Non bisogna perciò confondere la nobiltà
con le titolature, anche se è sempre stato di grande importanza
poter dimostrare d’avere un cognome illustre o d’appartenere
a una famiglia nobile, sia per non nuocere alla dignità storica
posseduta nel tempo dalla famiglia, sia perché vi è una
società dei simboli e delle esteriorità ove un determinato
tipo di aggregazione esclusiva può essere d’ausilio a migliori
relazioni sociali.
Prima del 1861, esistevano in Italia diverse fonti nobilitanti, con criteri
e principî propri ai diversi Stati che formavano l’assetto
politico del nostro Paese: dopo la nascita del Regno d’Italia, la
Consulta Araldica accertò la nobiltà di circa ottomila persone
o famiglie.
Poche altre furono accertate o nobilitate, fra il 1948 e il 1983, dalla
Sacra Maestà di re Umberto II.
Altresì, si ritiene che ci siano oltre duemila famiglie in possesso
di titoli non veri o convinte d’esser nobili. I falsi nobili sono
coloro che equivocano sul reale e non acclarato stato di nobiltà,
ostentando stemmi e corone ottenuti, in buona fede o per ignoranza dell’argomento,
da “ principi ” dalle pretensioni fantasiose.
Un tempo, le famiglie nobili venivano ad accentrare in se stesse le alte
cariche e il governo: è difficile definire con esattezza il ruolo
storico della nobiltà, perché per un certo periodo il corso
della storia dipese unicamente da tale ceto e allo stesso, quindi, vanno
imputati eroismi e virtù, come ogni sorta di misfatto.
Oggi, la nobiltà ha un senso solo se unita all’esercizio
virtuoso di quei valori tradizionali di cui è sempre stata espressione:
il riconoscimento di un titolo nobiliare costituisce pertanto consacrazione
di preesistenti caratteri ( che non può creare ex nunc
), conferendo un onore pubblico ed essendo punto di partenza per la formazione
di una nuova stirpe nobile.
Attualmente, la concessione in Italia d’un titolo nobiliare dativo
( contrapposto a un titolo nobiliare nativo, cioè ereditato e posseduto
sin dalla nascita ) avviene in virtù dei meriti riconosciuti alla
persona e a seguito dell’esercizio delle prerogative sovrane di
quanti, Principi Pretendenti secondo la storia, il diritto o l’accertamento
giurisdizionale, ne siano giuridicamente titolari.
Tale concetto è stato assunto in ogni tempo dalle Case già
regnanti: ove manchi la debellatio, cioè la volontaria
e spontanea rinuncia a ogni diritto di pretensione, e i Principi siano
in regola con le regole disciplinanti la successione secondo i propri
ordinamenti, sorge la figura del principe pretendente al trono, in cui
si accentrano le seguenti prerogative:
• il jus imperii, cioè la potestà di comando;
• il jus gladii, vale a dire il diritto all’obbedienza
da parte dei sudditi;
• il jus majestatis, cui consegue il diritto a ricevere
difesa e onori;
• il jus honorum, cioè il diritto di premiare, concedere
onorificenze, dignità nobiliari e cavalleresche, o la facoltà
di investire altri della potestà di concedere tali onori.
Tutte le dignità erano conferite, dunque, dal sovrano, che fu
la fonte stessa dell’onore: omnes dignitates procedunt a principe,
tamquam a fonte in qua omnes sunt.
Un Sovrano, ancorché abbia abbandonato o gli sia stato imposto
di lasciare il suolo Patrio, conserva intatte quelle prerogative a cui
non è di ostacolo la mutata posizione istituzionale, mentre le
altre sono sospese: secondo la magistratura italiana – che ha fatto
applicazione dei principî mutuati dal diritto internazionale - il
jus honorum è diritto intangibile e imprescrittibile della
Casa Sovrana.
Ne consegue che un titolo nobiliare ( con predicato, qualifica e stemma
) concesso oggi, se meritato, non diverge concettualmente da quelli assunti
nei secoli trascorsi ( ancorché dativo e non nativo ), e ciò
perché emanazione della prerogativa sovrana ( rex tantum nobilem
facere potest ): il suo uso, la sua trasmissione, &c., sono regolati
dall’atto esecutivo del decreto di investitura, vale a dire dalle
“ Lettere Patenti ”.
Infatti, le sentenze che accertarono nei vari discendenti delle diverse
dinastie la qualità nativa di pretendenti al trono riconobbero
loro, per ciò stesso, la prerogativa di concedere titoli nobiliari
e cavallereschi degli Ordini di pertinenza della propria Casa sovrana.
Per giungere a tale conclusione, la magistratura italiana si trovò
nella necessità di risalire sino agli antichi ordinamenti e muovere,
così, dal Medioevo, quando, nel pieno vigore del sistema feudale
e nel successivo suo frazionamento in monarchie autonome, il fenomeno
giuridico, collegato prevalentemente a norme non del tutto e uniformemente
statuali, venne ad assumere una particolare fisionomia . Con lodevole
diligenza, fu ricostruito in maniera storicamente puntuale l’ingenerarsi
della sovranità come elemento essenziale dello Stato quale persona
giuridica; della sovranità del Principe e delle prerogative dinastiche;
del status particolare di cui gode un Sovrano, ancorché
detronizzato, in quanto giuridicamente riconosciuto e tutelato dal diritto
internazionale in cui necessariamente la sua figura si colloca, purché
non debellato; della pretendenza al trono e dei diritti del principe ereditario.
Singolare e meritevole l’impegno profuso dalla nostra magistratura
anche per la disamina di nozioni sconosciute all’attuale ordinamento
repubblicano , che prevede che i titoli nobiliari ( qualifiche e prerogative
annesse ) - privati del loro valore giuridico e, quindi, non più
soggetti di diritto pubblico - rimangano in vita solo quale reminiscenza
storica e con quel valore sociale loro derivante dal perdurante costume
.
Da rilevare che i pronunciamenti poterono aver luogo solo collegando
il particolare status del Sovrano e le sue prerogative e pretensioni,
non tanto all’ordinamento repubblicano - che risulta indifferente
all’uso del titolo nobiliare - quanto al diritto internazionale:
“ Le prerogative sovrane, di natura personale, non abbisognano
di ratifiche o riconoscimenti di sorta, per queste non è applicabile
la disposizione XIV delle Norme Transitorie della Costituzione della Repubblica
Italiana, che non riconosce i titoli nobiliari. E ciò in quanto
tale norma vale solo per i titoli sorgenti da concessione, conferiti ai
sudditi o cittadini di una nazione, ma non alle qualità sovrane,
che nascono come diritto di sangue ”.
Tali sentenze, anche perché pronunciate in periodo repubblicano,
destarono l’attenzione di eminenti commentatori e giuristi ( come
del Professor E. Furnò, Rivista Penale del 1961, con l’imprimatur
del Professor E. Eula, primo Presidente della Corte di Cassazione, e del
Professor F. Ungaro, storico e giurista insigne; o del Professor G. A.
Pensavalle De Cristofaro dell’Ingegno, “Questioni al vaglio
della Magistratura ” ), dai quali, passim, riporto:
“ Il rigore di questa teoria, che ribadiva gli antichi insegnamenti
sui diritti sovrani del Principe, confermandone la natura personale, la
perpetuità e la ereditarietà, si venne via via attenuando
in quella del “ diritto di pretesa ” ( o pretenzione ), per
cui il Principe, se spodestato, conserva la valida pretesa ad ottenere
l’effettivo esercizio del potere sul territorio, del quale fu privato.
Questo più pacato indirizzo trova ancor oggi consensi.
“ Richiamandosi a scrittori recenti, quali Nasalli Rocca di Corneliano,
G.B. Ugo, Bascapè, Gorino Causa, e Zeininger, scrive Renato de
Francesco: “ La teoria del legittimismo, sfrondata delle estreme
conseguenze alle quali l’hanno condotta alcuni suoi sostenitori,
ed intesa invece come un diritto di pretesa, che nel Sovrano ex regnante
resta, anzi inerisce in lui “ jure sanguinis ” e per diritto
“ nativo ” in perpetuo, è perfettamente accettabile
e soddisfa le esigenze dei giuristi e le coscienze dei popoli, anche in
questo secolo dinamico ed eminentemente rappresentativo in campo politico
”.
“ In campo internazionale la “ sovranità ” non
risulta attribuita esclusivamente allo Stato, comunque concepito. Lo dimostrano
significativi esempi, di cui il più illustre e convincente è
quello offerto dal Romano Pontefice, Capo della Chiesa Cattolica. Ridurre
la figura del Romano Pontefice a quella di Capo dello Stato Città
del Vaticano, significherebbe non solo sminuirne, ma addirittura negarne
l’esistenza. E sarebbe sostenere cosa inesatta proprio sul piano
internazionale. Il Romano Pontefice, quale Capo della Chiesa Cattolica,
ha la massima potestà sovrana insita proprio nella Sua persona;
tanto è vero che, nella vacanza della Sede Apostolica, nessun soggetto
subentra né poterebbe subentrare nel sommo potere che trapassa
direttamente al successore del Pontefice per una continuità morale.
In Questo caso – è evidente – che la “ sovranità
” inerisce alla persona fisica e la segue comunque, non essendo
vincolata al territorio, che invece per lo Stato costituisce elemento
essenziale. Ovunque sia, il Romano Pontefice è Sovrano nella pienezza
di tutti i suoi poteri e tale è riconosciuto non solo da i molti
milioni di fedeli, sparsi nel mondo, ma anche da molte e potenti potenze
estere, come dimostra il periodo storico dal 1870 al 1929, durante il
quale, pur avendo Egli perduto il territorio dello Stato, conservò
intatto il Suo alto prestigio nelle relazioni internazionali. La stessa
Italia, dopo l’annessione di Roma, ne riconobbe la particolare posizione
con la Legge 13 maggio 1871, n. 214, detta “ delle Guarentigie ”.
“ Il Pontefice prima del 1870 riuniva in sé la duplice qualità
di Capo dello Stato Pontificio e di Capo della Chiesa Cattolica, venendo
ad essere così l’organo di due specie di rapporti con gli
Stati: rapporti di natura religiosa come Capo della Chiesa, e rapporti
di natura giuridica e politica come Capo dello Stato Pontificio. Quindi
nella Sua duplice qualità egli era fonte della Nobiltà da
lui creata ”.
“ Nel 1870 il Pontefice fu privato del potere temporale e solo nel
1871 gli furono resi dal Governo italiano nel territorio del Regno gli
onori sovrani, mantenute le preminenze d’onore riconosciutegli dai
Sovrani cattolici, concesse tutte le prerogative onorifiche della sovranità
e tutte le immunità necessarie per l’adempimento del Suo
Altissimo Ministero. Se non ché tra queste prerogative onorifiche,
di una delle più rilevanti, perché integra uno dei più
importanti attributi della Sovranità, quella di concedere titoli
nobiliari e onorificenze cavalleresche, non venne fatta menzione nella
legge, per cui sorse il problema se il Pontefice avesse, anche dopo la
caduta del potere temporale, la facoltà di conferire titoli nobiliari.
“ In proposito è bene ricordare che, anche prima del 1870,
non sempre il Pontefice conferiva le onorificenze ed i titoli nobiliari
nella sua qualità di Capo territoriale dei Suoi Stati, dato che
anche quando faceva concessioni a stranieri, Egli agiva nella Sua qualità
di Capo spirituale della Chiesa, e per ricompensare benemerenze verso
la Chiesa ”.
“ La posizione del Sovrano spodestato si porta necessariamente sul
piano internazionale, perché soltanto qui trova la sua concreta
giustificazione, storica e politica, i cui motivi non sempre coincidono
con quelli della sua giustificazione astratta, filosofica. Ed il problema
giuridico si risolve in via positiva più che filosofica, considerando
più la realtà, storica e politica, che non le spinte ideali,
pur avendo queste ultime indiscutibile valore. Ma la realtà storica,
cioè l’attualità del fenomeno, è la forza prevalente
nelle relazioni internazionali, poiché ne influenza l’aspetto
giuridico con la sua massa di vitali interessi ”.
“ La posizione del Sovrano spodestato trova tutt’ora sul piano
internazionale elementi affermativi di non trascurabile importanza, perché
concreti ed univoci. Il primo elemento è dato dal trattamento riservato
al Sovrano ex regnante da parte dei Sovrani regnanti che ne accettano
e rispettano le prerogative, portate dal diritto di nascita e di sangue.
Il secondo elemento significativo proviene dall’atteggiamento degli
Stati nei confronti delle Dinastie, da essi detronizzate. Di regola viene
disposto l’allontanamento e vietato il ritorno del Sovrano ex regnante
e dei suoi discendenti. E la possibile revoca di tale deliberazione richiede
di massima la rinuncia al diritto di pretensione da parte del Sovrano
spodestato. Tranne, si comprende, il caso di restaurazione. Con l’ordine
di allontanamento e con il divieto di ritorno, imposti alla Famiglia ex
regnante, lo Stato interessato, è vero, afferma la sua sovranità
e nel contempo nega quella della Dinastia detronizzata, ma è anche
vero che ne riconosce la pretesa. Se così non fosse, i provvedimenti
presi dallo Stato non avrebbero senso. Né avrebbe senso subordinare
alla rinuncia dei diritti di pretensione il ritorno in patria del Pretendente
e della Famiglia. Sarebbe infatti assurdo chiedere la rinuncia ad un diritto
inesistente ”.
“ L’allontanamento ed il divieto di ritorno, imposti alla
famiglia ex regnante; la pacifica restaurazione della monarchia, voluta
dallo Stato interessato; la concessione del ritorno in Patria, subordinata
ai diritti di pretenzione, fanno sempre capo ad un atto giuridico, che,
nel primo caso, è atto unilaterale di imperio, ma che, negli altri
due, si risolve in un accordo di volontà fra due distinti, pari
soggetti. La parità dei soggetti è posta in luce sia dall’indipendenza
di ciascuno dei due rispetto all’altro sia dall’oggetto dell’accordo,
che risolve il contrasto fra due pretese alla medesima sovranità.
Contrasto, che, nel caso di restaurazione, si risolve a favore del pretendente,
mentre, nel caso della rinuncia ai diritti di pretenzione ( compiuta debellatio
), si chiude a favore dello Stato ”.
“ Il patrimonio araldico dinastico, come già è stato
posto in rilievo, sfugge all’ordinamento statuale, ancor quando
il Sovrano è regnante, cioè Capo di Stato. A maggior ragione
vi sfugge, quando il Sovrano non regna più e lo conserva, ovunque
si trasferisca, esclusivamente per sé e suoi discendenti. Data
la sua natura, non è pensabile che cada nella sfera di un qualunque
ordinamento statuale o si trasferisca da un ordinamento all’altro,
trasformandosi di volta in volta, a seconda del contenuto e dei limiti,
portati da ciascuna cittadinanza; e che magari perisca per poi risorgere
a seconda delle diverse legislazioni ”.
La magistratura italiana, nella commistione fra ordinamento repubblicano
e norme del passato ordinamento nobiliare, adattò i diritti e le
successioni nobiliari alla normativa vigente.
Ne consegue:
• il diritto di tutti i discendenti, maschi e femmine, alla trasmissibilità
di qualunque prerogativa, titolo, qualifica o predicato, risultanti legittimamente
in capo all’intestatario, senza tenere in alcun conto - in contrasto
con l’art. 40 del R. D. 7 giugno 1943, n. 651, approvante il nuovo
Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, che prevede la successione
nei titoli unicamente per l’agnazione maschile - le condizioni di
trasmissibilità indicate nell’originaria concessione;
• quanto accertato viene considerato valido ai fini dello stato
civile non con valore di titolo o predicato ma come parte del cognome;
• prevalenza, nella successione nei titoli, del grado sulla linea
( in contrasto con l’art. 54 del R. D. 14 giugno 1928, n. 1430,
che, nella successione dei collaterali, preferiva la linea sul grado );
• possibilità di prova fornita per via giudiziaria del legittimo
possesso di un titolo ( ipotesi esclusa dall’ordinamento nobiliare
);
• diritto al Sovrano spodestato di concedere titoli, trasmissibile
ai successori purché non debellati ( e non incentrato esclusivamente
nel Sovrano già regnante, la cui posizione particolare è
sottesa alla mancata rinuncia alla pretensione, che gli Stati ove le Dinastie
hanno esercitato le loro sovrane prerogative non possono vanificare se
non ottenendo il volontario abbandono del diritto, cioè rendendo
perfetta la debellatio ).
Tutto ciò denota che il Sovrano spodestato conserva un ben preciso
diritto, basato sull’ereditarietà, che in concreto si identifica
nella pretenzione al trono perduto, ciò che lo legittima a conferire
i titoli nobiliari, onorificenze e distinzioni cavalleresche appartenenti
al patrimonio araldico della dinastia.
Tali diritti sono connaturati al concetto di “ Sovranità
”, sia pure allo stato potenziale, secondo il principio formulato
dalla teoria del legittimismo. Invero, essi costituiscono un autentico
“ privilegio ”, il quale non può avere altra teorica
giustificazione al di fuori della “ Sovranità ” intesa
come “ qualità personale del Principe ”.
La magistratura italiana riconobbe quindi il jus honorum ai
Sovrani spodestati e ai loro discendenti, purché non debellati
e in regola con le disposizioni regolanti la successione secondo il rispettivo
ordinamento.
Lo Stato, nei limiti della sua influenza ( cioè del territorio
nazionale ), può vietare al Sovrano spodestato l’esercizio
dei suoi diritti, ma questo atteggiamento altro non rappresenta che un
ulteriore indice del riconoscimento della particolare posizione della
dinastia non debellata.
La rinuncia alla pretenzione, per essere valida, non deve essere necessariamente
sancita da atto scritto, ma, secondo consolidata giurisprudenza, acquista
rilevanza giuridica anche se manifestata con un semplice atto di pubblico
omaggio al capo dello Stato subentrato ( in quanto declaratoria di sottomissione
e implicito riconoscimento di altra sovranità, della quale, con
tale atto, cessa la contestazione ): la debellatio, in quanto
ricompresa nella sfera dei diritti disponibili, proietta i suoi effetti
anche sulla futura discendenza.
Il Conte di Parigi, pretendente al trono di Francia, dovette abdicare
ai diritti di pretensione per essere autorizzato a risiedere in patria.
Ciò gli è stato richiesto dalla repubblica francese, che
nel 1886 aveva allontanato la Famiglia già regnante. Il ritorno
in Austria del principe Otto d’Asburgo, pretendente al trono, si
è consentito solo in quanto il Principe pubblicamente rinunciò
ai suoi diritti di pretenzione.
La repubblica italiana, nata dai brogli del referendum istituzionale
del 2 giugno 1946, privò i membri e discendenti di quel ramo di
Casa Savoia, già regnante, dei diritti elettorali, attivi e passivi;
ne precluse l’accesso ai pubblici uffici; all’ex Re , alle
consorti e ai discendenti maschi furono vietati l’ingresso e il
soggiorno nel territorio nazionale ( Sua Maestà la regina Maria
Josè poté far ritorno in Italia dopo che le fu riconosciuto
il status di vedova non più consorte ).
Anche in quest’ipotesi, pure ammettendo che colui che nacque come
S. A. R. Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, non fosse ancor
prima decaduto dalla successione al trono per le inequivocabili manifestazioni
di volontà di S. M. re Umberto II, si è consentito il rientro
in Italia dei discendenti dell’ultimo, compianto, re d’Italia
solo a seguito della dichiarazione di fedeltà alla repubblica italiana
da parte di Vittorio ed Emanale Filiberto di Savoia e, quindi, di pubblica
rinuncia ai diritti di pretenzione.
Per chiarezza, ciascuna Casa Sovrana che abbia esercitato la sovranità
su tutto o parte il territorio della penisola italiana vanta gli stessi
diritti su di esso.
Questa lunga premessa vale a dimostrare l’assunto secondo cui,
per il diritto internazionale, la concessione nobiliare prescinde da rapporti
costituiti con la cosa pubblica e con la Patria di appartenenza del concessionario,
per essere riservata a persone distintesi per azioni rivolte a favore
della Casa Sovrana, per atti indipendenti di valore e di carità
o per il riconoscimento di benemerenze, conseguite privatamente o pubblicamente,
che abbiano toccato la sensibilità del principe pretendente.
Pertanto, una casata principesca, già sovrana, mantiene sempre
il carattere di dinastia, il cui attuale Capo di Nome e d’Arme conserva
titoli, prerogative e spettanze dell’ultimo sovrano spodestato,
con il nome di principe pretendente, abbia ora il trattamento di Altezza
Imperiale, Altezza Reale o di Altezza Serenissima.
In Italia, le Case Sovrane con queste prerogative sono diverse. Ricordiamo,
fra le altre:
Savoia – Aosta;
Asburgo – Lorena;
Asburgo d’Austria d’Este;
Borbone – Parma;
Paternuense - Balearide;
d’Altavilla ( seu d’Hauteville ) Sicilia - Napoli;
Amoriense d'Aragona;
Angelo Comneno di Costantinopoli;
Paleologo di Bisanzio;
Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi.
Sul trono dello Stato Vaticano c’è Sua Santità il
Romano Pontefice.
Quindi, la giurisprudenza italiana degli scorsi decenni ha statuito che
i discendenti di qualsivoglia dinastia non debellata posseggono la fons
honorum, e se è pur vero che le sentenze fanno stato solamente
fra le parti, i loro eredi o aventi causa, è altrettanto indiscutibile
il valore di precedente che le decisioni assumono nei confronti d’ogni
caso analogo rispetto a una determinata dinastia.
A tal proposito, riproduco, a mero titolo d’esempio, estratti di
sentenze emanate in epoca Regia e repubblicana riguardanti case sovrane
che ottennero l’avallo della giurisprudenza: Focas Flavio Angelo
Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi; Lascaris Comneno Flavio
Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville; Paternò Castello di
Carcaci; d’Altavilla ( seu d’Hauteville ) Sicilia Napoli (
innumerevoli sono le pronunce riguardanti altre Case Sovrane, fra cui
Amoroso d’Aragona, &c. ).
Così, S. A. I. Don Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De
Curtis di Bisanzio Gagliardi, Porfirogenito della stirpe costantiniana
dei Focas Angelo Flavio Ducas Comneno, nato a Napoli il 15 febbraio 1898
e deceduto in Roma il 15 aprile 1967, principe imperiale di Bisanzio,
principe di Cilicia, principe di Macedonia, principe di Tessaglia, principe
di Ponto, principe di Illiria, principe di Moldavia, principe della Dardania,
principe del Peloponneso, &c. &c., duca di Cipro, duca di Epiro,
duca e conte di Drivasto e Durazzo, &c. &c., fu confermato dalle
sentenze 18-07-1945, n. 475, IV Sezione, del Regio Tribunale Civile di
Napoli, e 07-08-1946, n. 1138, IV Sezione, del Tribunale di Napoli ( repubblica
italiana ), erede di Costantino I Magno Imperatore e discendente legittimo
della più antica dinastia imperiale bizantina vivente.
Infatti, la Regia sentenza 475/1945, cit., decise che il principe Antonio
De Curtis-Gagliardi è “ discendente diretto mascolino legittimo
della famiglia imperiale dei Griffo-Focas ( … ), con gli onori e
diritti di Conte Palatino, oltre agli altri titoli, onori e diritti che
gli competono per la predetta discendenza. ”
La sentenza 1138/1946, cit., ordinò all’ufficiale dello
stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita di Antonio
De Curtis-Gagliardi, annotando in calce allo stesso atto che “ compete
al neonato la qualifica di Principe ed il trattamento di Altezza Imperiale,
quale rappresentante, in linea diretta, mascolina e legittima, della più
antica dinastia imperiale bizantina vivente. ”
In seguito, il tribunale di Napoli, con sentenza 01-03-1950, definì
S. A. I. Antonio “ erede e successore delle varie dinastie bizantine
dell’Imperatore Costantino il Grande, ” ordinando all’ufficiale
dello stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita del
Principe “ nel senso che vi si legga: Focas-Flavio-Angelo-Ducas-Comneno
De Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio. ”
La citata sent. 1138/1946 ordinò “ altresì all’Ufficiale
dello Stato Civile di Roma di annotare in calce all’atto di nascita
della figlia del Principe Antonio De Curtis, a nome Liliana, la qualifica
di Principessa. ”
Infine, con sent. 1° marzo 1950, il tribunale civile di Napoli, IV
sezione, ordinò “ all’ufficiale dello stato civile
di Roma di procedere a simile rettifica del cognome della Principessa
Liliana de Curtis Griffo Focas, figliuola di detto Principe Antonio ”,
nel senso che vi si legga “ Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De
Curtis di Bisanzio Gagliardi, ” e affermò che “ gli
Imperatori Bizantini erano successori ed eredi di tutti i diritti despotali,
onori e titoli degli Imperatori che li avevano preceduti. Pertanto, non
v’ha dubbio che il ricorrente, quale unico erede e successore vivente
delle varie dinastie bizantine, dall’Imperatore Costantino il Grande
in poi, riassumendo nella sua persona tutti i diritti, onori e titoli
che essi godevano, abbia anche il diritto incontestabile di riprendere
tutti i titoli di cui le loro famiglie si fregiavano. ”
Analoghe considerazioni valgono per lo stralcio della sentenza 10-09-1948,
n. 5143 bis, n. 23828/48 R. G., della VII sezione della pretura
di Roma, che riconobbe a Sua Altezza Imperiale il principe Don Marziano
II Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville
la spettanza dei titoli di Basileus titolare di Costantinopoli;
Capo della Casa Lascaris Comneno; Despota di Nicea e della Bitinja; erede
Porfirogenito dei Nemanja Paleologo; Pretendente all’imperiale trono
di Bisanzio e di erede della dinastia del Sacro Impero di Oriente ovvero
dell’Augustissima Comnenia dei Principi Lascaris, che si ricongiunge
all’imperatore Costantino il Grande, nonché la capacità
di compiere atti di sovranità quale Porfirogenito e continuatore
di una Augusta Stirpe già Sovrana ( e per di più spodestata
senza debellatio, che, oltre a conferire gradi cavallereschi
dell’Ordine del suo patronato, concede anche titoli nobiliari e
di volontaria giurisdizione ).
La Pretura, in tale sentenza osservò altresì, a proposito
della tesi della continuità delle prerogative delle Famiglie Sovrane
( Famiglie da molto tempo spodestate dei loro Troni ), che la prerogativa
cosiddetta regia è una prerogativa jure sanguinis che
ha solo il Re e Principe sul Trono, che trasmette ai suoi successori anche
quando, per vicende varie, vengono privati del possesso territoriale e
che si conservano nei secoli anche quando la dinastia ha perduto praticamente
il Trono ed è stata deposta legalmente. Si arguisce – continua
la sentenza - che il Capo della Casa Lascaris, discendente dalla dinastia
dei Flavio Comneno Ducas estromessa con la forza, conserva anche in esilio
tutte le prerogative dei Sovrani Regnanti e può compiere ogni atto
che gli compete, e gli atti che egli compie hanno valore giuridicamente.
Altro estratto proviene dalla sentenza 27-06-1949, n. 114, n. 217/49
R. G., della pretura di Vico del Gargano, che riconobbe che la famiglia
imperiale dei Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di
Turgoville, impersonata da S. A. I. Don Marziano, Basileus Titolare di
Bisanzio, può conferire investiture nobiliari, avvegnaché
le Dinastie destituite con la forza conservano intatte tutte le loro prerogative
e quindi esse di pieno diritto possono concedere titoli nobiliari ai loro
fedeli o alle persone degne e meritevoli; quello che giova e sorregge
– osserva la sentenza - è il decreto di nomina, cioè
l’atto potestativo di conferimento; per conseguenza come del resto
riconosciuto in altri casi dalla Magistratura italiana ( cfr. Ordinanza
28 maggio 1947 del Tribunale di Napoli ) la Dinastia Lascaride Angelica
Flavia Comneno Ducas, estromessa con la forza dai fastigi del potere imperiale,
conserva tutte le prerogative dei sovrani regnanti.
Tre sentenze riguardanti la dinastia Paternuense Balearide hanno confermato
la consanguineità con la Casa d’Aragona – Majorca -
Sicilia e la legittimità della relativa fons honorum.
La prima, della pretura unificata di Bari, 03-03-1952, n. 485, divenuta
irrevocabile nelle forme di legge, ha accertato che “ la Famiglia
Principesca dei Paternò ebbe origine da Giacomo I il Conquistatore,
discendente dai conti di Guascogna, del Re di Navarra e dei Re di Castiglia
”; la seconda, 05-06-1964, n. 119, del Tribunale Penale di Pistoia,
sezione unica, ha espressamente confermato la legittimità della
fons honorum del rappresentante massimo della Real Casa Paternò,
in quanto la legittimità del pretendente della famiglia Paternò
deriva dalla discendenza legittima e provata di un membro della Real Casa
d’Aragona; la terza, sentenza arbitrale 08-01-2003, n. 50, dichiarata
esecutiva con decreto del Presidente del Tribunale Ordinario di Ragusa
17-02-2003, n. 177, ha dichiarato che competono al Capo della Real Casa
“ le prerogative sovrane connesse allo jus majestatis ed
allo jus honorum, con la facoltà di conferire titoli nobiliari,
con o senza predicato, stemmi gentilizi, titoli onorifici e cavallereschi
relativi agli ordini ereditari di famiglia; la qualità di soggetto
di diritto internazionale e di gran maestro di ordini non nazionali ai
fini della legge 3 marzo 1951, n. 1978 ”.
Le sentenze del Tribunale di Napoli, IV sez. civ., 30-11-1949, n. B/4549/49,
e I sez. civ. 30-07-1956, n. B/2337/56, accertarono nei principi Mario
e Cesare le qualifiche “ di Principe Reale d’Altavilla (d’Hauteville)
e di Principe di Sangue porfirogenito, Principe Reale di Sicilia e di
Napoli, Duca delle Puglie, Duca di Sicilia, Conte di Lecce, Duca di Capua,
Principe di Taranto, Principe di Bari e di Principe di Antiochia, quale
legittimo pretendente al trono di Napoli e di Sicilia, con trattamento
di Altezza Reale, ed erede e capo della Augusta Reale Dinastia Normanna
e di Sicilia ”, in quanto “ i Cilento (seu Cilenti, de Cilento)
sono la continuazione genealogica e storica del ramo superstite dei Normanni
d’Altavilla di Sicilia e di Napoli e precisamente i discendenti
di Guglielmo d’Altavilla, Conte di Principato (l’attuale regione
del Cilento) uno dei figli di Tancredi d’Hauteville. Essendo tutto
ciò in questa sede provato, ne consegue che il ricorrente è
il capo della casa Normanna d’Altavilla di Sicilia e di Napoli e
pertanto a lui spetta, per sé e per i suoi successori maschi e
femmine all’infinito tutte le qualifiche, prerogative, attributi
e trattamenti che gli competono. Pertanto il ricorrente ha diritto alla
qualifica di Princeps Natus ovvero Principe di Sangue, oltre a tutte le
titolarità o titolature che gli competono quale soggetto di diritto
internazionale quale depositario di tutti i diritti della famiglia e di
curatore della sua casa, ai troni di Sicilia e di Napoli e dell’Italia
Meridionale ”, il dispositivo della sentenza in esame, rettificando
gli atti dello stato civile, ordinando che il ricorrente vi risulti “
S.A.R. il Principe Reale Cesare d’Altavilla (seu d’Hauteville)
Sicilia-Napoli ”.
Infine, oltre sedici sentenze di Pretura e Tribunale, Regie e repubblicane,
hanno accertato la legittimità della Casa Imperiale Amoriense d’Aragona
e dei suoi ordini cavallereschi; più di dieci sentenze di tribunali
repubblicani hanno riconosciuto titoli e predicati della medesima Casa.
Si può ragionevolmente concludere tale disamina affermando, sulla
scorta di quanto affermato dalla giurisprudenza italiana, che un sovrano
potrà anche essere stato privato del trono - e financo bandito
dallo Stato su cui esercitò la sovranità - ma non potrà
mai essere spogliato della sua qualità nativa: in questa fattispecie,
ha origine il pretendente al trono, che mantiene intatti quei diritti
della sovranità al cui esercizio non è di ostacolo la mutata
posizione giuridico-istituzionale, fra cui il jus honorum, cioè
il diritto di conferire titoli nobiliari e gradi onorifici di ordini cavallereschi
di collazione ed ereditari facenti parte del patrimonio dinastico della
famiglia ( oltre che poter creare altri Ordini ).
Quindi, l’opinione invalsa che considera autentici nobili solo
coloro che risultino iscritti in repertori, albi, libri d’oro, &c.,
è del tutto infondata, poiché essi sono, invero, parziali
e incompleti.
Infatti, ogni Casa Sovrana, all’epoca in cui esercitò la
propria sovranità, pretendeva dai sudditi di nobile status
- per il riconoscimento dei titoli nobiliari di concessione di altra fons
honorum - che sottostessero a certe disposizioni, subordinandone
la riconferma al rispetto di condizioni anche economiche.
Anche i re di Casa Savoia richiedevano la corresponsione di una tassa.
Talvolta, malgrado il pieno diritto, proprio il pagamento della gabella
divenne discriminante per l’accertamento dei propri titoli, e divenne
quindi frequente l’esclusione dai predetti elenchi ( peraltro tuttora
pubblicati da private associazioni ) di persone pienamente legittimate.
È evidente che né l’inclusione né esclusione
di un titolato da qualsivoglia elenco ha valore probante, perché
da una parte la nobiltà non si perde ma resta vincolata nei secoli
alla famiglia, e dall’altra ciò che realmente conta è
la verifica dell’effettiva concessione del titolo e della legale
pertinenza di esso all’individuo o alla famiglia, da comprovare
mediante documentazione storica, genealogica, giuridica e canonica: occorre,
cioè, essere in possesso dell’atto potestativo di concessione
( lettere patenti e decreto ), che dimostri il diritto alla nobiltà
vantata.
Oggidì, non riveste alcun rilievo giuridico l’registrazione
a elenchi di carattere privato, fra cui il Libro d’Oro della Nobiltà
Italiana, curato dal Collegio Araldico, in quanto i titoli annotati ai
sensi dell’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano sono esclusivamente
quelli concessi o riconosciuti dai Savoia ( e dal Vaticano, annotati in
conseguenza del Concordato dell’11 febbraio 1929 ).
Quindi, se la costituzione repubblicana ha inteso lasciare che i titoli
nobiliari rimanessero come mero ricordo storico o che i relativi predicati
valessero come parte del nome, la magistratura, arbitrale e ordinaria,
rimane attualmente l’autorità cui è riservato il compito
e che ha la potestà di accertare la legale esistenza in una determinata
famiglia - e di dichiararne la relativa spettanza – dei titoli nobiliari
( stemmi, predicati e qualifiche ), antichi o ex novo.
Se non vi sia la certezza di un patrimonio nobiliare preesistente, ma
sufficienti indizi, si può disaminare la possibilità di
proporre a una della Case Sovrane dianzi citate una sanatoria.
Invece, in mancanza assoluta d’un precedente riconoscimento nobiliare,
il Consiglio Araldico Italiano – Istituto Marchese Vittorio Spreti,
per specifica esperienza, già ampiamente avvalorata e comprovata
sin da oltre la prima metà del secolo scorso, può proporre
a diverse Case Sovrane ( i cui capi di Nome e d’Arme, in forza di
sentenza, sono principi pretendenti al trono oltre che soggetti di diritto
pubblico internazionale, e, quindi, giuridicamente dotati della prerogativa
della fons honorum ) la concessione ex novo di titoli,
stemmi, predicati e della qualifica di Don e di Donna.
A sanatoria e concessione può seguire una sentenza pronunciata
dal Tribunale Arbitrale Internazionale, composto da magistrati arbitrali,
giudici di I grado con funzione di accertamento del titolo e dell’annesso
predicato, stemma e qualifica.
Infatti, come studiosi del diritto nobiliare e attenti conservatori delle
tradizioni della storia patria, siamo riusciti a coniugare la realtà
giuridica con la virtù nobiliare: il Tribunale Arbitrale Internazionale,
costituito nei modi e nei termini della legge italiana e del diritto internazionale,
accerta con sentenza la spettanza in capo agli aventi diritto del titolo
nobiliare, del predicato, della qualifica e dello stemma gentilizio. Questa
pietra miliare costituisce una verità incontestabile, rendendo
giustizia alla nobiltà che vanta un’eredità d’onore
e un patrimonio di virtù.
In tale evenienza, il presidente di un tribunale ordinario della repubblica
italiana, dopo aver accertato la regolarità formale della procedura
attestante il riconoscimento in capo alla parte del status nobiliare
de quo, omologa la sentenza pronunciata dal suddetto tribunale
arbitrale internazionale e la rende esecutiva, con decreto, nel territorio
della repubblica italiana, disponendone altresì, ove richiesto,
la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione.
Secondo la legge italiana, la sentenza pronunciata dal Tribunale Arbitrale
Internazionale assume la forza di sentenza di primo grado dopo l'emissione
del decreto d’esecuzione da parte del presidente del tribunale ordinario
( ex art. 825 del codice di procedura civile ). L'estratto della sentenza
e del decreto del presidente del tribunale ordinario possono, come detto,
essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
La predetta pronuncia giurisdizionale, dopo che sia divenuta irrevocabile
secondo la legge italiana, può avere esecuzione ( salve le limitazioni
stabilite dal diritto internazionale ), nel territorio degli Stati aderenti
alla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 ( più di cento
Nazioni ), resa esecutiva in Italia con legge 19 gennaio 1968, n. 62.
La sentenza, altresì, può stabilire la trascrizione del
titolo e del predicato nobiliare sugli atti di cresima e di battesimo,
secondo facoltà, e, in certi Stati, su documenti anagrafici ( passaporto
e carta d’identità ).
Quindi, la procedura più garantita consiste nel riconoscimento
o nella concessione al postulante d’un patrimonio nobiliare e nell’accertamento,
con sentenza arbitrale e conseguente omologa della magistratura ordinaria
italiana, della giuridica spettanza di esso in capo al titolare.
Attualmente, in qualità di consulenti, possediamo alcuni mandati
per titoli nobiliari di chiara fama ( alcuni di dinastia imperiale ) appartenenti
o appartenuti a ordini cavallereschi non nazionali e ad antiche e cospicue
famiglie, le quali, attraverso un atto di aggregazione familiare nobiliare
avanti a un notaio, possono refutare per degna continuazione il status
corrispondente ai relativi titoli nobiliari, predicati, qualifiche e stemmi,
con eventuali passaggi magistrali.
Siamo altresì in grado di proporre adozioni civili-legali con
l’acquisizione del cognome di importanti dinastie reali-imperiali
ovvero di casate nobiliari, italiane e straniere. A tal fine, è
stato concluso un accordo con un importante studio legale con sedi a Berlino
e Potsdam per l’espletamento delle pratiche concernenti la procedura
di adozione internazionale, con effetti civili, da parte di importanti
famiglie nobili, disciplinata combinatamente dalla legge tedesca ( Bürgerliches
Gesetzbuch BGB, §§ 1767 - 1772 ) e dalla relativa convenzione
internazionale ( conclusa il 29 maggio 1993 ).
Tale adozione è valida in tutti gli Stati firmatari della convenzione
de qua ( fra cui l’Italia; nel sito http://hcch.e-vision.nl/index_en.php?act=states.listing,
c'è l'elenco degli Stati aderenti ), cui consegue l'assunzione
del cognome della famiglia adottante, comprensivo del titolo nobiliare
cognomizzato: infatti, dopo la Costituzione di Weimar, in Germania il
titolo costituisce parte integrante del cognome.
L'elenco delle famiglie nobili adottanti ( più di ottanta: Freiherr
significa barone; Graf conte, Prinz principe, &c.
) è confidenziale: siamo tuttavia autorizzati a indicarne alcune
( Graf Bernadotte af Wisborg, svedese, parente del re di Svezia; Graf
von Hardenberg; Graf von Thun und Hohenstein; Freiherr Treusch von Buttlar-Brandenfels;
Prinz von Schoenburg-Waldenburg ).
A esempio, ove adottato dal conte Bernadotte af Wisborg, ne deriverebbe
sui registri dello stato civile italiano e sulla carta d'identità
il nuovo cognome di Mario Graf Bernadotte af Wisborg Rossi.
Per concludere, date tutte queste premesse, posso affermare che la nobiltà
è viva e vive con noi tutti i giorni, in ogni sua sfaccettatura:
dal rinvenimento di un titolo a una concessione ex novo; dalla
refuta di un titolo all’accertamento giudiziario e pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale; dalla cognomizzazione di un titolo e di un predicato
alla adozione, con acquisizione del cognome della famiglia nobile adottante.
Non più segretezza e paura o divieto d’avvicinarsi a un
titolo nobiliare o d’investigare le “ prove di nobiltà
”, bensì libertà d’indagine storica, entro una
cornice di serietà e intangibilità giuridiche.
La vera libertà di pensiero e di azione, volte a riappropriarsi
di un diritto naturale della persona e alla sua perpetuazione nello spirito
della ribellione democratica.
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